L'uomo Galileo
Un ritratto di Galileo così com'era a vedersi o ad aver a che fare nella quotidianità con le sue peculiarità caratteriali, ci è stato lasciato da Vincenzo Viviani nel Racconto istorico della vita del sig.r Galileo Galilei, scritto nel 1654 per desiderio dell'allora trentasettenne principe Leopoldo de' Medici, con intenti dichiarati di «istorica purità» e «intera fedeltà». Dell'attendibilità di queste «memorie»,
estratte per la maggior parte dalla viva voce del medesimo sig.r Galileo, dalla lettura delle sue opere, dalle conferenze e discorsi già co' suoi discepoli, dalle attestazioni de' suoi intrinseci e familiari, da pubbliche e private scritture, da più lettere de' suoi amici, e finalmente da varie confermazioni e riscontri che le autenticano per verissime e prive d'ogni eccezione,
si potrebbe dubitare, a lasciarsi suggestionare dallo stile enfatico e a tratti stucchevole, specchio di una venerazione quasi idolatrica e di intenti riabilitativi, frustrati poi dagli eventi e da una certa indole tremante e autocensoria del personaggio, che questa biografia non pubblicò mai. Andando però a verificare fra lettere, opere e documenti, il ritratto dell'uomo trova molte conferme e risulta alla fine più attendibile del profilo intellettuale, dove le circonvoluzioni barocche e l'intento purgativo delle vicende scabrose del processo e della condanna rendono un Galileo filosofo molto poco rispondente al vero (ipertrofico nel suo lato ingegneristico e sperimentalista, e depresso nella sua rivoluzione metodologica), falsando, se non addirittura sottacendo per gran parte, la sua tragica vicenda storica.
Aspetto fisico e salute cagionevole
Fu il sig.r Galileo di gioviale e giocondo aspetto, massime in sua vecchiezza, di corporatura quadrata, di giusta statura, di complessione per natura sanguigna, flemmatica et assai forte, ma per fatiche e travagli, sì dell'animo come del corpo, accidentalmente debilitata, onde spesso riducevasi in stato di languidezza. Fu esposto a molti mali accidenti et affetti ipocondriaci e più volte assalito da gravi e pericolose malattie, cagionate in gran parte da' continui disagi e vigilie nell'osservazioni celesti, per le quali bene spesso impiegava le notti intere. Fu travagliato per più di 48 anni della sua età, sino all'ultimo della vita, da acutissimi dolori e punture, che acerbamente lo molestavano nelle mutazioni de' tempi in diversi luoghi della persona, originate in lui dall'essersi ritrovato, insieme con due nobili amici suoi, ne' caldi ardentissimi d'una estate in una villa del contado di Padova, dove postisi a riposo in una stanza assai fresca, per fuggir l'ore più noiose del giorno, e quivi addormentatisi tutti, fu inavvertentemente da un servo aperta una finestra, per la quale solevasi, sol per delizia, sprigionare un perpetuo vento artifizioso, generato da moti e cadute d'acque che quivi appresso scorrevano. Questo vento, per esser fresco et umido di soverchio, trovando i corpi loro assai alleggeriti di vestimenti, nel tempo di due ore che riposarono, introdusse pian piano in loro così mala qualità per le membra, che svegliandosi, chi con torpedine e rigori per la vita e chi con dolori intensissimi nella testa e con altri accidenti, tutti caddero in gravissime infermità, per le quali uno de' compagni in pochi giorni se ne morì, l'altro perdé l'udito e non visse gran tempo, et il Sig.r Galileo ne cavò la sopradetta indisposizione, della quale mai poté liberarsi.
La descrizione fisica corrisponde all'immagine lasciataci dai numerosi ritratti che abbiamo di Galileo, dal Passignano al Tintoretto, dal Villamena al Sustermans. Un uomo robusto, abbastanza in carne, dai capelli castani tendenti al rossiccio, fronte spaziosa e lineamenti marcati. Nell'asimmetria di uno degli occhi c'è chi cerca tuttora le cause prime della cecità senile, alla quale non avrà di sicuro giovato un'intera vita di osservazioni al telescopio. Le lamentele per i problemi di salute sono frequenti nel carteggio di Galileo almeno quanto i riferimenti alle stelle e ai pianeti. La scelta degli acciacchi è ampia e variegata. Potevano renderlo «inetto di corpo e di mente ancora» un «assalto di dolori colici», il «polso fatto interciso», le «palpitazioni di cuore», un'ernia ciclicamente riacutizzantesi, fino a dei veri e propri virtuosismi: «acerbissimi dolori di gambe cagionatimi da freddure ed umidità, con molti dolori di petto, di rene, con una grande effusione di sangue, del quale ho quasi vote le vene, et con una continua vigilia». Le frequentissime malattie da raffreddamento lo immobilizzavano a letto, facendogli a volte disertare appuntamenti improrogabili, come il passaggio delle comete del 1618. Tendente alla melanconia, ma anche alla somatizzazione, ebbe dei veri e propri tracolli fisici, spaziando fra i sintomi più svariati, in occasione delle prove durissime che fu costretto a superare: la convocazione a Roma per deporre imposta col tintinnio delle catene, la segregazione durante il processo, la morte della figlia Virginia. La perdita della vista resta però la crudeltà più feroce che la sorte gli abbia inflitto: fu graduale e non improvvisa riducendogli via via il campo visivo, fino all'inabilità totale nella sua prima ragione di vita, l'osservazione della natura.
Vita all'aria aperta
Non provò maggior sollievo nelle passioni dell'animo, né miglior preservativo della sanità, che nel godere dell'aria aperta; e perciò, dal suo ritorno di Padova, abitò quasi sempre lontano dalli strepiti della città di Firenze, per le ville d'amici o in alcune ville vicine di Bellosguardo o d'Arcetri: dove con tanto maggior satisfazione ei dimorava, quanto che gli pareva che la città in certo modo fosse la prigione delli ingegni speculativi, e che la libertà della campagna fosse il libro della natura, sempre aperto a chi con gl'occhi dell'intelletto gustava di leggerlo e di studiarlo; dicendo che i caratteri con che era scritto erano le proposizioni, figure e conclusioni geometriche, per il cui solo mezzo potevasi penetrare alcuno delli infiniti misterii dell'istessa natura. Era perciò provvisto di pochissimi libri, ma questi de' migliori e di prima classe: lodava ben sì il vedere quanto in filosofia e geometria era stato scritto di buono, per dilucidare e svegliar la mente a simili e più alte speculazioni; ma ben diceva che le principali porte per introdursi nel ricchissimo erario della natural filosofia erano l'osservazioni e l'esperienze, che, per mezzo delle chiavi de' sensi, da i più nobili e curiosi intelletti si potevano aprire.
A parte l'elevazione a metodo di un particolare fastidio per la vita cittadina, ridisegnato dal Viviani in base ai principi esposti nel Saggiatore, vero è che Galileo evitò sempre, per quanto poté, di risiedere entro le mura di Firenze. Negli anni in cui visse a Padova, rientrando in patria sporadicamente, alla casa di famiglia dalle parti del Carmine preferì sempre qualche villa di campagna messagli a disposizione dalla Corte medicea o da qualche amico, non estraneo probabilmente il carattere invadente e prevaricatore della madre, con la quale i rapporti furono sempre difficili e la distanza salutare. A Pratolino e ad Artimino faceva lezione di matematica al giovane principe Cosimo de' Medici, il futuro granduca Cosimo II. Nella villa di Marignolle lo ospitò spesso don Antonio de' Medici, amico e a modo suo egualmente indagatore degli effetti di natura. «Io al presente mi trovo alle Selve, villa del Sig. Filippo Salviati, dove dalla salubrità dell'aria ho ricevuto notabil giovamento alle molte indisposizioni che mi hanno i mesi passati grandemente travagliato in Firenze», raccontava in altra occasione lui stesso, sempre spaventato dall'afa estiva o «dalla malignità dell'aria iemale» di Firenze. Perciò, stabilitosi definitivamente in Toscana, visse sempre in collina, a Bellosguardo lunghi anni, per trasferirsi in età più tarda ad Arcetri vicino al convento di clausura delle due figlie monache. Echi della sua vita agreste pullulano nelle sue opere e nel suo carteggio, materiali sterminati per la sua acuta capacità osservativa e la sua verve esemplificativa. «E caminando in campagna contro al Sole, in quante migliaia di pagliuzze, di sassetti, un poco lisci o bagnati, si vedrà la reflession del Sole in aspetto di stelle splendentissime?». O ancora: «Ma per terra che cosa intendete voi? Forse questa ch'è sparsa per le campagne, la quale si rompe con le vanghe e con gli aratri, dove si seminano i grani e si piantano i frutti, e dove spontaneamente nascono boscaglie grandissime, e che in somma è l'abitazione di tutti gli animali e la matrice di tutti i vegetabili?». La sua naturale tendenza ad esplorare riguardava però tutto quanto gli fosse intorno, dai più significativi fenomeni naturali ai più banali inghippi quotidiani, e la sua attenzione poteva essere indifferentemente attirata dalla «lubricità della pelle dell'anguille» come dalla «renitenza al tagliare d'un coltello che abbia solamente tagliato qualche frutto, e massime agro».
Convivialità, cibo e vini
Quantunque le piacesse la quiete e la solitudine della villa, amò però sempre d'avere il commercio di virtuosi e d'amici, da' quali era giornalmente visitato e con delizie e regali sempre onorato. Con questi piacevagli trovarsi spesso a' conviti, e, con tutto fosse parchissimo e moderato, volentieri si rallegrava; e particolarmente premeva nell'esquisitezza e varietà de' vini d'ogni paese, de' quali era tenuto continuamente provvisto dall'istessa cantina del Ser.mo Gran Duca e d'altrove: e tale era il diletto ch'egli aveva nella delicatezza de' vini e dell'uve, e nel modo di custodire le viti, ch'egli stesso di propria mano le potava e legava nelli orti delle sue ville, con osservazione, diligenza et industria più che ordinaria; et in ogni tempo si dilettò grandemente dell'agricoltura, che gli serviva insieme di passatempo e di occasione di filosofare intorno al nutrirsi e al vegetar delle piante, sopra la virtù prolifica de' semi, e sopra l'altre ammirabili operazioni del Divino Artefice.
Frequenti le notizie di desinari e cene dentro e fuori casa, a Bellosguardo come alla Certosa, frequentissime le allusioni a cibi e vini da lui stesso prodotti o ricercati con particolare interesse presso amici e parenti. Così come si rivolgeva a Bonaventura Cavalieri perché gli mandasse delle mortadelle da Bologna, o al figlio Vincenzo, che lavorava alla cancelleria di Poppi, perché gli facesse avere caciotte e prosciutti del Casentino, Galileo riceveva dal vescovo di Siena Ascanio Piccolomini i «frutti delle Crete… belli da vedere e belli anche al taglio», aveva in regalo dal principe Leopoldo de' Medici alcuni «caci» sempre dalle Crete senesi «insieme a vino di Montepulciano», o chiedeva in pagamento per la costruzione di un compasso non «manco d'un secchio del miglior vino che si sia fatto questo o l'anno passato», tenendo a chiarire la «cognizione della misura del secchio» ovverosia «tanta, che quattro buoni compagni in una sentata ne vederebbero il fondo». Una vera e propria attività conserviera animava il convento di Arcetri, dove le monache, in particolare Suor Maria Celeste, al secolo Virginia, figlia di Galileo, lavoravano i frutti della terra del convento e di casa Galilei, con particolare attenzione ai gusti del padre sempre solleticato nelle gioie del palato. Perciò gli venivano recapitati confetture, pere cotte, canditi, pasticcini, calicioni (paste di forma romboidale con zucchero e mandorle, simili al marzapane), agro e morselletti di cedro, fiori di ramerino canditi, mostaccioli, berlingozzi, paste, acqua di cannella, uve accomodate, biricuocoli (detti anche cavallucci), conserva d'agro di cedro e di fiori di ramerino, cantucci, ossimele, marzapane, galline da brodo, e a volte, tanto per guarnire, una rosa. Forse a conoscenza di questa sua inclinazione alle tavole conviviali e imbandite, dopo il processo e la condanna, il papa stabilì che Galileo non avesse «da fare in casa sua né ridotti, né conviti o desinari, né in altro modo radunate» e che se ne stesse ad Arcetri «ritirato».
L'orto e la vigna erano per Galileo quasi un'ossessione e negli anni era divenuto un esperto coltivatore che si serviva spesso nei suoi scritti di metafore ed esempi rurali e lasciava appunti enologici su come «cavar da un medesimo tino il vino dolce e maturo e far che vi resti l'agro». Preoccupata per la sua salute malferma, la figlia si raccomandava spesso e tentava di convincerlo a non passare troppo tempo esposto al freddo dell'inverno, al caldo dell'estate e alla fatica del lavoro: «abbia un poco di amore più a se stessa che all'orto». Oppure: «non vada nell'orto per amore di noi figliuoli che desideriamo vederla giugnere alla decrepità». Ma non dovevano essere preghiere ascoltate. Si legge nella biografia di Niccolò Gherardini: «nel tempo del potare e rilegar le viti, si trattenea molte ore continue in un suo orticello, e tutte quelle pergolette ed anguillari voleva accomodare di sua mano, con tanta simmetria e proporzione ch'era cosa degna d'esser veduta». Una volta - raccontava in un italiano improbabile Robert Southwell, allievo di Vincenzo Viviani (che avrebbe ben superato il maestro divenendo presidente della Royal Society) - alcuni frati, passando a visitare Galileo, lo trovarono intento al lavoro dell'orto. Che vergogna - si scusò - presentarsi così, in abiti da lavoro! Sarebbe subito andato a cambiarsi per tornare vestito «da philosopho». Ma non sarebbe stato meglio «far fare ad altri questa fatiga»? - gli fu chiesto. «Perderei il gusto - no, no. Se credeva che fosse tanto gusto de far fare che da fare, piglierei vuollia ad esse». Ma non tanto il timore di esser solleticato dal delegare ad altri la cura del proprio orticello, quanto la diffidenza verso chiunque potesse rovinare le sue creature, gli faceva smettere l'abito del filosofo. Non a caso in sua assenza Virginia, sempre premurosa, lo ragguagliava su potature e innaffiature, tenendo ad informarlo che non ci avrebbe certo pensato la Piera, ottima e fidata fantesca, ma a quanto pare contadina scadente.